L’attivismo di Rosa Parks, la forza del suo gesto e le numerose reazioni sociali e politiche cui ha dato il via hanno come comune denominatore tre aspetti principali: la tutela dei Diritti Umani, la lotta non violenta e la lotta all’esclusione sociale e all’emarginazione. È questo il filo conduttore che delinea il percorso, a tutela dei diritti umani, avviato da HRYO nel 2009 e promosso nella nostra città e in varie parti del mondo, nonché il valore simbolico che abbiamo deciso di attribuire al Premio Rosa Parks, che dal 2013 ad oggi è stato rivolto a donne che si sono contraddistinte per la loro caparbietà e impegno profuso nel contrasto ad ogni forma di discriminazione e nella tutela, nella difesa e nella cultura dei diritti umani tutti. Un valore simbolico così forte che riconosciamo nelle lotte di chi, come diceva Rosa Parks stessa, “fa il possibile per rendere questo mondo un posto migliore in cui tutte le persone possano godere della libertà.”
Ed è a Sabrina Drago, attivista palermitana e cittadina del mondo, a cui quest’anno assegniamo il Premio Rosa Parks. Da anni Sabrina si batte per i diritti delle donne, un impegno per la difesa dei diritti umani che ha visto e percorso vari luoghi: dalla Tanzania al Kenya, all’Etiopia, alla Bolivia e infine anche alla Colombia, a Medellìn, dove è rimasta per sette anni.
Sabrina ci racconta di una storia fatta di straordinarie casualità, di un percorso di crescita personale alimentato da una forte passione, consapevolezza politica e da quella utopia che sta all’orizzonte e che serve a camminare, come diceva lo scrittore uruguayano Eduardo Galeano.
Il suo attivismo comincia negli anni dell’Università. Sabrina studia Cooperazione Internazionale e si avvicina a questo mondo partecipando a iniziative di volontariato nella propria città. Durante gli studi, cominciano le prime esperienze all’estero e la conoscenza di realtà problematiche di cui nessuno parla. In Colombia, diventa responsabile dell’associazione Corporación Amiga Joven, un’organizzazione comunitaria fondata nel 1996 per sostenere le donne nei quartieri popolari di Medellín e che formula proposte di empowerment e formazione come strategia per prevenire l’abuso, lo sfruttamento sessuale, la tratta di esseri umani e altre forme di violenza contro donne, adolescenti e ragazze adulte.
Qual è stato il traguardo più bello raggiunto nel tuo lavoro con le donne nei vari contesti internazionali?
“Uno dei traguardi più belli è la scuola popolare di genere e formazione sociopolitica per le donne dei quartieri popolari della città di Medellin. La scuola ha permesso a molte delle ragazze, che hanno vissuto in contesti di povertà educativa e con poche prospettive, di cambiare mentalità. Ha fatto sì che cambiassero la loro logica e sognassero progetti di vita: potere immaginare di essere musiciste, artiste, e così via. La cosa più bella è che oggi lo sono e quella ancora più bella è che ragazze che sono entrate come partecipanti oggi sono operatrici sociali e facilitatrici di molti dei laboratori della scuola.”
In cosa consiste il nuovo percorso intrapreso qui con il progetto Violetta? da dove è originato e in che modo vuole rendere visibile, prevenire e combattere la problematica della violenza di genere?
“Violetta è un progetto appena nato e in costruzione, ma con intenti chiari: la voglia di fare da ponte con l’America latina e con altre associazioni del mondo, di rendere visibile queste tematiche e di contribuire alla mia realtà, con l’idea di lavorare con le scuole attraverso dei laboratori. È importante rendere visibili realtà problematiche di cui nessuno parla, perché la violenza di genere non è solo in Colombia, lì è soltanto più visibile e manifesta.
Lo scorso novembre abbiamo realizzato il primo laboratorio “Corpo e Movimento – un percorso di empowerment”. A fine gennaio invece abbiamo cominciato un ciclo di sei laboratori che si chiama Ri-trovarsi, ogni incontro con differenti tecniche artistiche, dal canto al lavoro sul corpo, sulle emozioni e sugli stereotipi di genere.”
Perché è importante parlare di violenza di genere oggi in Italia?
“Si pensa che la violenza di genere qui non esista. In realtà è sottilissima, quasi invisibile, e ci sono tantissime problematiche su cui lavorare. È un contesto diverso, ma c’è ed esiste. La violenza di genere non è solo violenza domestica o femminicidio, che è ovviamente la sua forma più manifesta. La disuguaglianza di genere è anche fortemente emozionale e ha molto anche a che fare con il maltratto psicologico che si riceve. Deve essere riconosciuta come una problematica politica e sociale. Quando indossi le lenti viola, vedi la vita violetta e ti rendi conto di quanto tutto attraversi le relazioni di disuguaglianza di genere, qui come in qualsiasi parte del mondo.”
Rosa Parks, con un gesto apparentemente semplice, ha dato vita a numerose reazioni sociali e politiche. In che modo secondo te ciascuno di noi può contribuire a creare reazioni a catena di questo tipo?
“La prima pratica fondamentale è cercare di essere coerenti nella nostra vita con le cose in cui crediamo, saperle implementare. Portare avanti questo esercizio costante e trovare un equilibro tra quello che si pensa e quello che si crede. Per me è una lotta organica, una lotta contro tutte quelle sovrastrutture con cui siamo cresciuti che ci vogliono conformati, capitalisti, consumisti. È il cammino verso quell’utopia all’orizzonte. Come ci ricorda ancora una volta Eduardo Galeano, l’obiettivo del cammino non è raggiungere l’utopia, ma guardare verso la meta.”
L’episodio di cui ha fatto esperienza Rosa Parks è stato descritto come “l’espressione individuale di una bramosia infinita di dignità umana e libertà”. Parole che incarnano ancora oggi le lotte di cui ci facciamo promotori, con un approccio al massimo inclusivo, intersezionale e solidale con la povertà e le disuguaglianze sociali.