Il 23 dicembre, la notizia di un incendio doloso al campo profughi di Lipa, in Bosnia-Erzegovina, ha scosso l’opinione pubblica e portato alla luce la complessa situazione migratoria ai confini balcanici dell’Unione Europea. Il campo bosniaco, già da tempo oggetto di osservazione e critiche da parte di alcune organizzazioni umanitarie per la salvaguardia dei diritti umani, era stato progettato come soluzione temporanea all’incremento dei flussi migratori durante l’estate e aveva annunciato la prossima chiusura, con conseguente redistribuzione degli ospiti. Tuttavia, il rifiuto da parte di molte regioni della Bosnia-Erzegovina ad accogliere i rifugiati aveva costretto questi ultimi a rimanere nel campo in condizioni invivibili, impreparati alle temperature sempre più rigide e privi dei più basilari servizi igienico-sanitari.

Dopo l’incendio, le autorità del campo hanno parlato, nei giornali bosniaci, di atti di vandalismo da parte dei rifugiati e hanno citato più volte la rabbia degli stessi nei confronti della direzione del campo e delle autorità dello Stato. Una rabbia effettivamente giustificata, se si considera il ritardo con cui le autorità della Bosnia-Erzegovina sono intervenute per soccorrere i rifugiati in fuga dal campo, lasciandoli essenzialmente privi di mezzi di supporto e sussistenza nelle gelide temperature invernali, costretti a trovare riparo nei boschi innevati e in casolari abbandonati.

L’inadempienza delle autorità statali sembra essere soltanto una conferma del ruolo della Bosnia nella recente emergenza migratoria, durante la quale il Paese è diventato il collo di bottiglia dell’Europa. La formazione di campi come quello di Lipa, uno degli otto campi profughi presenti nel Paese, sembra avere lo scopo di bloccare e arginare il fenomeno migratorio piuttosto che quello di consentire ai richiedenti asilo di defluire in maniera regolare e costante all’interno dei Paesi dell’Unione Europea.

Questa tipologia di campi profughi è ampiamente diffusa – parliamo qui di Lipa, ma potremmo citare anche il campo profughi di Lesbo, in Grecia, recentemente ricordato in un rapporto di Medici Senza Frontiere per le precarie condizioni igienico-sanitarie e i rischi connessi alla salute psico-fisica dei rifugiati – e rappresenta l’emblema negativo di quella che viene oggi definita la «rotta balcanica». In quest’ottica, i campi funzionano sempre più spesso come campi di prigionia, con lo scopo di tenere i rifugiati fuori dai confini delle città, ed è esattamente ciò che è accaduto nei giorni immediatamente successivi all’incendio di Lipa, quando i rifugiati in fuga dal campo sono stati respinti dalle forze di polizia e costretti a tornare in quel luogo già definito invivibile dall’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni).

Respinti ai confini da Croazia, Slovenia e Italia, i rifugiati sono rimasti ammassati al gelo nelle foreste della Bosnia, sotto la minaccia costante di soprusi da parte della polizia bosniaca e recando sul proprio corpo i lividi delle violenze perpetrate impunemente dalla polizia croata. Nel frattempo, campi già organizzati che potrebbero ospitare centinaia di persone rimangono inutilizzati, come quello di Bira, sito in un ex-fabbrica nel centro della città di Bihać, chiuso a settembre e mai riaperto perché le autorità locali e una parte della popolazione non accettano l’ingresso dei profughi nella città.

I rifugiati rimangono dunque bloccati nelle “eterotopie” della migrazione: quei luoghi che, ci ricorda Foucault, esistono al di fuori dei luoghi reali a cui appartengono, privi delle più basilari norme socio-giuridiche e soggetti a una costante, ripetuta sospensione dei diritti umani. Una condizione ancora più grave e colpevole, se si considera che la quasi totalità dei profughi proviene da Paesi come l’Afghanistan, l’Iraq e il Pakistan, devastati in larga parte da guerre e politiche scorrette incentivate e coadiuvate dalle stesse nazioni europee che i rifugiati tentano oggi di raggiungere.

Attualmente, migliaia di migranti bloccati a Lipa sono stati soccorsi al confine tra Bosnia e Croazia e ospitati in tende militari, soltanto dopo un duro intervento da parte dell’UE, che negli ultimi anni ha sostenuto la Bosnia-Erzegovina con cospicui finanziamenti per supportare le attività di soccorso e gestione dei flussi migratori. Tuttavia, la situazione igienico-sanitaria rimane emergenziale, soprattutto per l’insorgere di patologie respiratorie e della pelle causate dalla prolungata esposizione alle basse temperature.

Verica Racevic, del gruppo umanitario del Consiglio danese per i rifugiati, sostiene che sia difficile stabilire, allo stato attuale, quanti migranti siano affetti da Covid-19 e quanti, invece, presentino infezioni delle vie respiratorie causate dall’esposizione alle intemperie. E la pandemia è causa anche di ulteriori respingimenti ai confini con Croazia, Slovenia e Italia, già nel mirino delle organizzazioni umanitarie per gli abusi e le violenze sui migranti, sistematiche – specialmente nel caso della Croazia – e sistematicamente ignorate da Bruxelles, a dispetto di qualsiasi convenzione internazionale in tema di accoglienza.

Le testimonianze dei volontari, in effetti, gettano delle ombre sul sistema dell’accoglienza in Bosnia e anche sulla stessa gestione dei campi da parte dell’OIM.

L’organizzazione, come si legge in un’intervista condotta da Omer Karabeg per Radio Slobodna Evropa e ripresa dal sito Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, sembrerebbe limitare le autorizzazioni per l’accesso ai campi da parte dei volontari già dal 2018, nascondendo così le condizioni invivibili e le vessazioni e le violenze di cui i profughi sono oggetto, a opera di guardie private che gestiscono la sicurezza nei campi.

Il problema sembra quindi andare molto oltre l’incendio di Lipa e le poche migliaia di migranti bloccati nella neve del gelido inverno bosniaco. Gli eventi recenti sono soltanto la punta dell’iceberg di una crisi che, volutamente, è stata ignorata dalle autorità competenti in un vergognoso scaricabarile che coinvolge tutti gli organi preposti alla gestione dei flussi migratori, dalle istituzioni bosniache a quelle dell’Unione Europea. Colpevole, quest’ultima, di una immobilità le cui conseguenze colpiscono direttamente i rifugiati, vittime e bersagli di azioni inumane e di politiche apertamente xenofobe. Intanto, mentre Bruxelles temporeggia e le amministrazioni locali rifiutano di assumersi le proprie responsabilità, la Croce Rossa Italiana ha inviato aiuti e volontari per soccorrere i migranti, che rimangono al freddo nei boschi: esseri umani abbandonati da istituzioni che li vorrebbero invisibili.

Approfondimenti:
Internazionale: I dimenticati di Lipa, intrappolati nel ghiaccio della Bosnia; Danish Council for Refugees; Migrants in Bosnia camp health checked after days in cold; Una catastrofe umanitaria nel cuore dell’Europa.

Marzia La Barbera e Giorgia Spina

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